Qualche giorno prima che abbia inizio il Teatro Festival Italia, incontriamo Ivan Cotroneo, napoletano classe 1968, uno degli autori protagonisti del progetto “L’Attesa”, operazione assolutamente originale nel suo genere, che ha condotto dieci autori di punta della letteratura italiana contemporanea a creare personaggi insoliti ma, nel complesso, verisimili, che abiteranno, come fossero persone qualunque, alcuni tipici luoghi d’attesa della città: l’ufficio postale, una banca, il supermercato, la funicolare, la metropolitana, il foyer del teatro etc.
Ivan Cotroneo è tra gli ingegni più vivi e versatili del panorama letterario italiano: traduttore per l’Italia delle opere di Michael Cunningam e Hanif Kureishi, è autore di libri di narrativa grande successo, quali “Il re del mondo”, “Cronaca di un disamore” e “La kryptonite nella borsa”.
E’ autore, inoltre, di trasmissioni televisive indimenticabili, come “L’Ottavo Nano” o “Parla con me”, di fiction innovative come “Tutti pazzi per amore”, di molte sceneggiature cinematografiche, tra cui “Chimera” di Pappi Corsicato, “PAZ” di Renato De Maria , “L’uomo che ama” di Maria Sole Tognazzi e “Mine Vaganti” di Ferzan Ozpetek, coordina un laboratorio di sceneggiatura presso il DAMS di Roma e collabora con le riviste Rolling Stones e Max.
Per il progetto “L’Attesa” del Teatro Festival Italia ha scritto Assenti.
Ivan, tu sei un autore estremamente versatile, abituato a trasmigrare di genere in genere, sperimentando, oltre alla scrittura narrativa, anche quella per il cinema e per la fiction; qual è, dunque, il tuo rapporto con il teatro e con la scrittura drammaturgica?
Il mio rapporto personale con il teatro è davvero molto forte, in primo luogo perché sono uno spettatore di teatro appassionato e attento, inoltre molte delle persone con cui mi relaziono quotidianamente sono attori, registi ed uomini di teatro. Tra l’altro, da diverso tempo lavoro ad un mio progetto teatrale, una commedia lunga, che prima o poi, spero, riuscirò a terminare. Certo è un mezzo che pratico meno della scrittura narrativa o di quella per il cinema o per la televisione, ma, per esempio, ho già adattato per il teatro “Le regole dell’attrazione” di Bret Easton Ellis e “Closer” di Patrick Marber che è stata un’esperienza molto bella ed interessante. Poi ho collaborato alla scrittura di alcune cose comiche e, comunque, quando mi è stata proposta la possibilità di scrivere qualcosa per le “Attese” del Teatro Festival ho subito accettato con grande entusiasmo, trattandosi di un progetto, insolito, agile e stimolante.
A proposito dell’ attesa, senza svelare nulla della pièce, come ha interpretato Ivan Cotroneo il senso dell’attesa, che significato ha l’attesa nel tuo immaginario?
L’attesa nel corto teatrale che ho scritto è l’attesa per un amore impossibile, l’attesa per una persona che non arriva e che non può arrivare, è l’attesa tra persone che appartengono a spazi diversi, un’attesa che vale non per il risultato, ovviamente, perché è un risultato che non si concretizza, ma che è importante proprio in quanto tempo di sospensione. Per me l’attesa è quello spazio lì, è uno spazio della realtà che crediamo di impiegare aspettando ma è uno spazio pieno e denso di per sé; è un po’ quello che si dice dei viaggi, cioè che il percorso per arrivare alla meta è molto più importante della meta stessa. In questo caso io ho utilizzato questo spazio dell’attesa per raccontare, appunto, una storia d’amore impossibile.
Senti l’attesa è anche una pausa, più o meno volontaria del nostro tempo, in cui riusciamo a cogliere un movimento, a strappare un’immagine, a carpire un’idea: c’è un’attesa particolarmente significativa nella vita artistica e professionale di Ivan Cotroneo?
Io sono una persona che ha sempre vissuto molto nelle attese, anche la mia scrittura si è alimentata nelle attese; sin da giovane, quando ero all’università, studiavo nelle attese: studiavo in funicolare, negli autobus, in metropolitana, dal dentista…il tempo dell’attesa è stato da sempre, per me, molto significativo perché è stato inizialmente il tempo della lettura che poi è diventato il tempo della scrittura, infatti mi capita spesso di attendere, ad un appuntamento, perché casomai sono in anticipo, o semplicemente di essere in un momento di pausa e quello è un tempo prezioso proprio perché non programmato ed in quel tempo, molto spesso, capita che un’idea o una semplice frase si catapultino all’improvviso nella mia mente. Insomma, la scrittura è una cosa sfuggente, non la puoi davvero programmare, ti capita di sederti davanti al computer per quattro ore e non combini niente, poi in un tempo vuoto, in cui aspetti, con la testa libera, che accada qualcos’altro, succede tutto ciò che non eri riuscito a realizzare nelle quattro ore in cui avevi previsto di creare. Nelle vite che noi tutti conduciamo, il tempo dell’attesa, forse, è quello davvero sano, ed è questa la cosa che ho trovato stimolante del progetto in cui sono coinvolto, cioè il fatto di dovermi concentrare su un tempo apparentemente vuoto, cosa insolita anche per un narratore che, solitamente, nella narrazione deve procedere attraverso una scansione di eventi; poi sarebbe fin troppo facile citare “Aspettando Godot” per ricordarci che l’attesa è un tempo teatralmente pregno.
Ho l’impressione, inoltre, che l’attesa sia un elemento che ritorna spesso nella tua scrittura, nei tuoi libri ci sono, infatti, delle attese diverse ma tutte molto importanti, o sbaglio?
Ma sì, hai ragione, è proprio così: in fin dei conti il “Re del mondo” è l’attesa del successo, “Cronaca di un disamore” è l’attesa per un ritorno che poi diventa l’attesa di una liberazione e “La kryptonite nella borsa” è l’attesa del futuro, del passaggio dell’età.
Più in generale, Ivan, qual è il rapporto tra tempo e narrazione nel tuo universo creativo, nella tua pratica di scrittura?
Ma la scrittura occupa tutto il mio tempo, mi accompagna durante tutta la giornata, io ho uno strano modo di essere disciplinato relativamente alla scrittura, non mi do orari prestabiliti, certo so quando devo scrivere e quando scrivo un romanzo metto la sveglia sempre alla stessa ora del mattino e mi tengo libere determinate ore per scrivere, però poi il tempo della scrittura è un tempo misterioso, capita che sono a casa, mi sembra di aver voglia solo di mettermi a letto, poi vengo colto da un’idea e inizio a scrivere per ore e ore, così come capita che nelle quattro ore in cui avevo deciso di scrivere, sono fisicamente davanti al computer ma non succede nulla e inizio a fare solitari con le carte. In realtà quando si scrive, fissare il tempo, anche fissare la data in cui consegnare ciò che hai scritto all’editore, non è mai un buon sistema, bisognerebbe scrivere sempre come se si avesse tutto il tempo della vita davanti, ovviamente poi arriva il momento in cui qualcuno, casomai l’editore stesso, ti strappa il libro di mano e tu smetti di scrivere (altrimenti scriveremmo lo stesso libro per tutta la vita) ma questo termine è sempre un fatto arbitrario perché, secondo me, la scrittura è un lavoro di insoddisfazione continua.
Da napoletano, che relazione cogli tra Napoli e l’idea dell’attesa? A me più che una relazione, sembra un inevitabile destino…
Devo dire che io sono cresciuto a Napoli ed ho imparato sin da bambino a convivere con l’attesa però questa cosa non è stata mai motivo di disturbo, anzi credo che mi abbia aiutato, ho imparato sin da piccolo ad apprezzare il tempo dell’attesa
Infine, il corto teatrale che tu hai scritto per questo progetto si chiama “ASSENTI”, mi chiarisci che rapporto hai individuato tra l’assenza e l’attesa? A me, ad esempio, l’assenza mi sembra moltiplichi in sé il senso dell’attesa…
Ma io direi che l’attesa è per definizione l’assenza di qualcosa però il mio pezzo, che appunto si chiama “ASSENTI”, in realtà racconta di una presenza, una presenza virtuale e fantasmatica, emotivamente devastante. Insomma, come l’attesa è un tempo molto denso e pieno, l’assenza di cui parlo è una presenza molto intensa e forte.
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